L’attaccabottone: Futuro Artigiano (e tecnologico)

attaccabottoneokQuesta settimana, dopo la pausa vacanziera, invece di parlare nello specifico di una realtà “amica” o vicina a noi abbiamo deciso di dedicare la nostra rubrica ad un tema a noi molto caro, quello del recupero dell’artigianato e del saper fare, prendendo spunto anche dalla lettura del libro “Futuro artigiano-l’innovazione nelle mani degli italiani” e da alcuni articoli usciti di recente sui nostri quotidiani.

Futuro artigianoIl libro, così come il dibattito attorno a questo tema non è nuovissimo; scritto da Stefano Micelli , professore di Economia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stato, infatti, pubblicato nel 2011. L’autore descrive le tante realtà del nostro paese in cui “il saper fare continua a rappresentare un ingrediente essenziale di qualità e di innovazione. Racconta i molti modi in cui è possibile declinare al futuro un’eredità che merita di essere proposta a scala internazionale”.

Dell’importanza del rilancio del “Made in Italy” ormai ne sentiamo parlare ovunque; ciò che secondo me differenzia questo saggio rispetto alla facile retorica che gira intorno a quest’argomento, è l’attenzione posta sull’esigenza di unire alla manualità la tecnologia.  «Parliamo sempre di trasferimento tecnologico – dice Micelli – ma bisognerebbe parlare di osmosi. Osmosi tecnica e tecnologica. Cioè mescolare le abilità artigianali con le competenze industriali; le capacità dei tecnologi e dei manager con quelle, straordinarie, dei tecnici e degli artigiani». Bisogna riscoprire il “saper fare”. Ben consapevoli però della globalizzazione e dei nuovi saperi.

mani lavoro

Non è un caso che i Makers stiano spuntando come funghi in ogni parte del mondo, come non è un caso che anche i più grandi stilisti italiani di fama mondiale sentano l’esigenza di sottolineare il loro legame con il territorio e il legame con il suo artigianato d’eccellenza.

“In questo settore cambiamento e innovazione non avvengono solo sulla base della tecnologia, ma degli uomini. Soprattutto degli artigiani”, sono le parole di Marco Bizzarri di Bottega Veneta.

Articolo

Vi riporto qui il link di un articolo del Corriere della Sera dedicato al ritorno del Made in Italy, dove Cuciniello, re del cashmere, auspica ad un secondo Rinascimento italiano, dovuto proprio a quest’unione tra manualità e tecnologia avanzata, dove un sarto “cuce con una mano e rifinisce con il laser, e i suoi strumenti da lavoro sono ago e ipad. ”

http://archiviostorico.corriere.it/2013/dicembre/23/Made_Italy_nuovi_cavalieri_ce_0_20131223_d2dcd0fe-6b9e-11e3-aae0-b40b93ecc03b.shtml

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Su un articolo uscito poche settimane fa sul Sole 24ore invece si legge che : “Le persone vogliono seguire un processo dall’inizio alla fine, cosa che non riescono a fare nella vita di tutti i giorni e che è invece possibile per il maker che passa dall’ideazione alla realizzazione, alla distribuzione del proprio manufatto. Anche in questo caso, il punto è che, dopo una lunghissima eclisse, la manualità dell’artigiano che dà vita materialmente a un prodotto unico con piacere e passione è ritornata sulla scena. Non più fenomeno di retroguardia, bensì ultima frontiera dell’innovazione tecnologica e culturale. Il che sarà forse divertente per un hipster newyorkese, ma è sicuramente decisivo per un sistema produttivo come quello italiano che rappresenta ancor oggi uno dei principali serbatoi di competenze manuali al mondo”

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Se davvero c’è così tanto fermento per un ritorno di questo artigianato italiano , cosa manca a far scoppiare questa”terza rivoluzione industriale” in Italia?

La risposta che mi sono data, con l’aiuto del saggio di Micelli è che a noi serve prima di tutto cambiare la convinzione, ormai radicata nella cultura occidentale, per cui il sapere è solo quello accademico e per cui un posto di lavoro si guadagna per titoli. “ Noi siamo vittime di un concetto, quello di “economia della conoscenza”, che si fonda su un assunto quasi ideologico: cioè che solo la conoscenza formalizzata è rilevante, ed essa non ha a che fare né con la tradizione né con la manualità. Abbiamo abbracciato il presupposto in base al quale l’unica conoscenza economicamente rilevante è quella scientifica, di tipo generale-astratto. Il nostro presupposto, il Canone occidentale contemporaneo, è questo.” Il nostro sistema di formazione, in particolare l’università, è quanto di più lontano da una formazione pratica e manuale.

Bisogna dunque riportare il sapere manuale allo stesso livello di quello accademico e far di nuovo avvicinare i giovani ad esso, allora forse l’artigianato potrà diventare davvero la chiave di svolta per la nostra generazione e per quelle future.

N.

Oltre le grandi marche e la moda fast-food

Non possiamo negare che in un progetto come quello che stiamo realizzando ci siano difficoltà. Soprattutto in questo Paese e nelle attuali condizioni.
Ma lo spirito che ci contraddistingue e la forza del gruppo ci spingono sempre a continuare, e soprattutto a pensare in grande. Al momento siamo impegnate nella ristrutturazione della nuova sede e non vediamo l’ora di ricominciare e mettere in atto le mille idee di ognuna.

L’altro giorno, leggendo per caso il Venerdì di La Repubblica, abbiamo trovato un articolo interessante che sembra convincerci che la strada è giusta e percorribile. La moda è in trasformazione e noi tutti dobbiamo esserne protagonisti! 🙂

Riportiamo di seguito le parole di Valentina Della Seta del 4 gennaio 2013 (per chi non avesse la possibilità di leggerlo da sé).

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Il Venerdì 4 gennaio 2013, Valentina Della Seta, Elizabeth Cline

“ABITI DI LUSSO O LOW COST? MEGLIO IL FAI-DA-TE
LA PROVOCAZIONE DELLA GIORNALISTA ELIZABETH CLINE: RICICLO, ARTIGIANATO E CORSI DI CUCITO CONTRO IL CONSUMO SFRENATO NELL’ABBIGLIAMENTO RISCHIOSO PER LA SOCIETA’ E L’AMBIENTE”Mi sembra ridicolo lodare Michelle Obama per il fatto che indossa vestiti delle grandi catene e dal prezzo accessibile a tutti” ha detto all’Huffington Post la giornalista Elizabeth L. Cline, autrice di Overdressed: The Shockingly High Cost of Cheap Fashion (Portfolio Penguin editore, pp.244, euro 17). “La realtà è che l’industria dei vestiti e dei tessuti è in crisi da almeno dieci anni. Allora perché siamo così eccitati quando vediamo la First Lady in abiti importati di cattiva qualità?”.
La rete non ha perdonato a Cline la sua affermazione: i commentatori meno aggressivi l’hanno accusata di essere invidiosa dello stile di Mrs Obama, altri addirittura di razzismo.
Ma il libro di Cline racconta meglio di una battuta polemica il suo pensiero. E’ l’estate del 2009. La giornalista si trova in un negozio di una grande catena, a New York: “Ero davanti a uno scaffale” scrive Cline nell’introduzione “dal quale decine di paia di ciabattine pendevano come frutti. Per quanto ne sapevo, quelle scarpe potevano essere cresciute lì, su quell’albero di ferro. Non avevano storia, né origini. E, per mia fortuna, erano state ribassate da quindici a sette dollari al paio”. E’ solo dopo averne acquistate sette paia, averne indossate cinque e averne lasciate due nell’armadio perché ormai passate di moda, che l’autrice comincia a riflettere: “Mentre i vestiti diventano sempre più economici, ne consumiamo sempre di più. Nel 1930 in America una donna possedeva in media nove outfits. Adesso acquistiamo una media di sessanta pezzi di abbigliamento a testa ogni anno.” Ripensando ai nostri nonni, che nel 1900 avevano un solo paio di scarpe per tre fratelli, questa evoluzione non sembra poi tanto male. Ma è vero anche che l’impatto sociale e ambientale di questo tipo di produzione e consumo sfrenati ha un peso: “Petrolio e acqua stanno finendo” spiega Cline, “i ghiacciai si sciolgono, abbiamo alterato il clima forse per sempre. La Cina, dove la maggior parte dei vestiti sono prodotti, è in crisi ambientale e sulla via di consumare più fibre e risorse legate alla moda di quanto non facciano gli americani. I problemi legati all’industria dei vestiti in Occidente si moltiplicano rapidamente in ogni parte del mondo”. Ma, se da una parte ci sono i vestiti firmati (che quasi nessuno può permettersi) e dall’altra la moda fast-food, la soluzione quale potrebbe essere? Cline pensa all’artigianato, al riciclo e ai corsi di cucito, in crescita a Brooklyn, “frontiera” secondo il New York Times, “del movimento del fai-da-te”, e dove i residenti fanno il pane in casa, allevano polli per le uova e ristrutturano da soli le proprie abitazioni. “Per quanto mi riguarda” racconta Cline nelle ultime pagine del libro “lentamente la mia vita e il mio guardaroba sono cambiati. E quando le persone mi chiedono informazioni su un vestito che indosso ho finalmente una storia da raccontare“.